Spazio del Corpo 

Corpo dello Spazio

Lo spazio del corpo / il corpo dello spazio

Chiara Mangiarotti

Presidente della Fondazione Martin Egge Onlus, psicologa e psicoanalista


“La diversità è alla base di ogni arte. E senza arte cade tutto lentamente a pezzi.”

                                                                                      Malena Ernman


La mostra raccoglie i lavori, una quarantina, che sono stati prodotti dall’Atelier di Disegno e Pittura della Fondazione Martin Egge Onlus nell’arco degli ultimi anni, a partire dal 2019, e nasce dall’incontro con Armanda Marchesani che ha generosamente accolto la nostra proposta di collaborazione con la Fondazione che dirige. 

Lo spazio del corpo/ il corpo dello spazio è il filo conduttore che dà il titolo alla mostra e che ci ha guidati nel suo allestimento.

All’orizzonte del lavoro svolto negli atelier della Fondazione Martin Egge Onlus c’è il corpo nel suo farsi e la sua relazione con lo spazio. Avere un corpo, averne l’immagine, non è qualcosa che vada da sé per i nostri giovani artisti. 

Abbiamo la presunzione di affermare che farsi un corpo può essere uno degli “effetti collaterali” dei nostri atelier. 

Nei nostri atelier non facciamo arte terapia, ma una cura la pratichiamo: quella dell’invenzione; in un clima in cui l’interazione tra ragazzi e operatori/operatrici va al di là di ogni effetto di gruppo in cui ci sia un “capo”, va al di là di ogni rapporto speculare. 

I nostri ragazzi, uno per uno, vengono seguiti e sollecitati, a partire dai loro interessi e dalle loro preferenze, in un clima disteso, in cui, per ciascuno, non c’è un programma prefissato ma delle “dolci forzature “ che mirano a sviluppare la singolarità. Non c’è singolarità se non a partire dal corpo.

La nascita dell’essere umano come soggetto avviene nell’incontro con l’Altro del linguaggio che “disturba” il corpo e le “autostrade” di sensazioni che lo percorrono, il godimento massiccio da cui esso è attraversato, le convoglia in circuiti pulsionali e stabilisce dei limiti isolando gli oggetti pulsionali in corrispondenza degli orifizi del corpo. 

Quando il legame con l’Altro è interrotto, il godimento è interamente dalla parte del soggetto che ne è invaso e si rinchiude proprio perché non trova un limite a questo godimento. 

Senza limite non c’è la coscienza di un corpo e anche lo spazio esterno è disturbato. La chiusura del soggetto quando è allentata, produce uno spazio che non è né del soggetto né dell’Altro, in cui è possibile interagire con lui con degli effetti di invenzione.

Il corpo trova i suoi contorni attraverso lo stadio dello specchio, nell’identificazione con l’Altro che si erige di fronte a lui come riflesso o come simile. 

Questo avviene con il supporto simbolico dell’Altro materno, che gli indica l’immagine del suo corpo e con il sostegno del suo sguardo. Noi vediamo, ma allo stesso tempo siamo visti. 

Il corpo si costituisce come forma e allo stesso tempo se ne distacca l’oggetto come sguardo. In assenza dello specchio, il doppio funziona come bordo del corpo che gli conferisce un limite. Su questo bordo, un oggetto formato da materiali eterogenei che si compongono secondo la modalità di ognuno, andrà a localizzare il godimento. 

Attraverso il dispositivo della pratica à plusieurs i ragazzi riescono a “sopportarci” in quanto Altro. Per loro abbiamo la funzione di “doppio”, l’aiutante che li potrà sostenere e coadiuvare nello spazio intermedio in cui sono al lavoro per farsi un corpo e “assemblare” il proprio oggetto. 

Come a partire da “doppi” sono le loro produzioni, le raffigurazioni di animali nate per illustrare il libro di filastrocche di Alessandra Pelizzari S.O.S. Venezia e la sua laguna, gli animali mitologici del progetto Le pietre parlanti di Venezia, le grandi tele raffiguranti i supereroi che hanno dato il via al progetto Turn the Pain into Power, per arrivare agli autoritratti, rappresentazioni a partire dal proprio corpo dell’invenzione che ognuno di loro ha trovato per trasformare la paura in forza, in un “superpotere”. 

Lo svolgimento di tutti questi lavori presenti nella mostra è stato caratterizzato dall’affiancamento costante ai ragazzi durante gli atelier degli operatori come “doppi regolati” e dall’incontro con l’altro, nei momenti di uscita all’esterno e di atelier inclusivi che si sono svolti presso scuole elementari e medie e al Museo di Palazzo Grimani con il coinvolgimento di una classe del Liceo Artistico Marco Polo. 

Farsi un corpo implica anche la trasformazione dello spazio e della sua percezione e la possibilità di un dialogo con lo spazio che ci circonda e che accoglie i nostri corpi, offrendo loro un ambiente da abitare, permettendo loro di ripararsi, esporsi, muoversi e incontrarsi. 

Mattia parla dell’abbondanza dello spazio vuoto che ci circonda. È importante distinguere tra “vuoto” e “buco”. Il vuoto di cui parla Mattia nella sua infinitezza, non offre appigli, un bordo al quale agganciarsi, è un mondo troppo pieno, senza buchi, in cui è necessario dare un posto simbolico alla mancanza. 

Da qui l’importanza di “perdere” qualcosa “di cedere qualcosa della carica di godimento che interessa il  [suo] corpo”.

Solo così qualcosa di nuovo potrà prodursi e andrà a scriversi nello stile di ognuno, come ci suggerisce l’etimologia di questa parola, da stilo, “piccola asta d’osso o di metallo, appuntita a un’estremità e piatta dall’altra, usata dagli antichi per scrivere sulle tavolette cerate”. 

Le opere di Alessandro Cipriano, Amos Bompieri, Mattia Dian, Mattia Marchiori, Lorenzo Praitano, una per una, ci ricordano che dietro la visione c’è lo sguardo, declinato in modo singolare per ognuno degli autori che nel processo creativo, senza saperlo, hanno creato loro stessi, il proprio corpo e il proprio spazio. Quello che ciascuna opera comunica allo spettatore,  quello che ci “tocca” e ci “riguarda” è il quid enigmatico avvenuto durante la creazione, ignoto all’autore quanto allo spettatore, ma che ha trasformato il primo e che ci può trasformare in quanto spettatori se siamo disposti a farci sorprendere.