Per un laboratorio vocale con ragazzi autistici

domenica 16 ottobre 2016

Per un laboratorio vocale con ragazzi autistici

di Chiara Mangiarotti

Nel quadro della psicoanalisi, particolarmente nello sviluppo che ne ha dato Jacques Lacan, la voce è un oggetto pulsionale. Il soggetto nasce alla parola invocando l’Altro affinché gli risponda e dia consistenza al suo essere. É una domanda infinita di amore a cui l’Altro non può rispondere: l’invocazione cade nel vuoto dell’Altro.

Il celebre quadro Il grido di Munch ci aiuta a capire quanto stiamo dicendo: il quadro rappresenta un giovane essere asessuato che si tappa le orecchie, sullo sfondo del paesaggio di un fiordo infuocato dal tramonto. Sulla strada che attraversa diagonalmente il quadro due passanti stanno uscendo di scena, indifferenti alla figura che grida. L’artista testimonia dell’esperienza che lo porta a dipingere il quadro: un senso di angoscia lo coglie nella solitudine della sera quando ode un grido che lo induce a dipingere il quadro. Al contrario, osservando questo quadro, il suo soggetto, il grido, fa sorgere in noi l’angoscia. Sentiamo cosa dice Lacan a questo proposito: “Quando guardiamo l’immagine di Munch, il grido è attraversato dallo spazio del silenzio senza che esso lo abiti, essi non sono legati né perché siano insieme, né perché si succedano, il grido produce il baratro in cui si scava il silenzio”.

Il silenzio risuona quando è scavato dal grido. Al grado zero della parola, il grido causa il sorgere primordiale dell’oggetto voce che è silenzio, corrispettivo e limite del campo dell’Altro. Il quadro di Munch, attraverso il grido ci mostra il silenzio in quanto vuoto, mancanza costitutiva al cuore del soggetto.

Come dice Lacan: “È in questo vuoto che la voce, in quanto distinta dalla sonorità, voce non modulata ma articolata, risuona”. La voce risuona nel vuoto dell’Altro. Vediamo come questo avvenga in rapporto al linguaggio che modella l’essere umano quando viene al mondo. Chi è l’Altro per il bambino? Per il bambino l’Altro è innanzitutto la madre, che è non solo nutrice ma luogo del linguaggio, l’Altro sono i genitori e il discorso che essi tengono sul loro bambino prima ancora della sua venuta al mondo, le loro aspettative e dei loro progetti.

Il bambino, privo ancora della parola, per entrare attivamente nel linguaggio, deve alienarsi nei significanti dell’Altro, deve accettare l’alienazione al non-senso dei significanti, diciamo pure gli ideali che l’Altro gli ha appuntato addosso come stelline dello sceriffo, secondo la felice espressione di Virginio Baio, solo così potrà costituire un universo di senso, agganciando a quel primo significante senza senso (S1) altri significanti (S2).

C’è un secondo processo, la separazione, separazione simbolica, che attiene ai significanti e non ai corpi, in cui il soggetto scopre che non solo lui manca di qualcosa, del senso che l’Altro detiene, ma anche l’Altro è mancante in quanto non trova nel bambino l’oggetto complementare. La sovrapposizione di queste due mancanze, del soggetto e dell’Altro è un vuoto, la cui sostanza è il godimento, l’oggetto pulsionale che Lacan ha chiamato oggetto a. Il soggetto cede, lascia cadere l’oggetto nel vuoto dell’Altro nel separarsene simbolicamente.

Questa cessione di godimento permette al bambino di farsi rappresentare da un primo significante S1 per altri significanti S2, gli permette di identificarsi.

La voce è l’oggetto che permette questa prima identificazione, è il punto vuoto che permette al soggetto di parlare, di assumere il linguaggio per esprimersi.

Il soggetto, nel discorso, si posiziona in questo punto vuoto, diciamo dunque che la voce è il posto di enunciazione del soggetto. Quando parliamo, l’oggetto voce non è presente come sonorità, ma come oggetto indicibile con cui le nostre parole sono in rapporto e segna quindi la nostra posizione di soggetto nel discorso.

Come dice Jacques Lacan: “La voce risponde a quello che si dice […] perché risponda dobbiamo incorporare la voce come alterità di ciò che si dice”. Al di là delle parole e del loro significato, c’è la voce come alterità in quanto non attiene all’ordine significante. Possiamo così spiegarci il senso di estraneità che proviamo quando sentiamo la nostra voce registrata, staccata da noi.

Nel soggetto autistico tutto questo non avviene in quanto egli si distingue per il rifiuto della dipendenza dall’Altro. Come nota Jean-Claude Maleval che a questa tematica ha dedicato un libro, L’autiste et sa voix: “La posizione del soggetto autistico sembra dunque caratterizzarsi per il fatto di non voler cedere sul godimento vocale. Ne risulta che l’incorporazione dell’Altro del linguaggio non si produce. L’autistico non pone la sua voce nel luogo dell’Altro, ciò che gli permetterebbe di iscriversi sotto il significante unario dell’identificazione primordiale”.

Il rifiuto del soggetto autistico di incorporare la voce collocandola nell’Altro, non gli permette l’identificazione primaria e ha tutto un corollario di conseguenze:

1. Il linguaggio non è per lui svuotato dal godimento dell’oggetto voce ma ne è gravido. Ecco perché la minima alterazione del tono di voce dell'altro è recepita come un’ingiunzione e può indurre in lui una grande angoscia.

2. Il soggetto autistico è molto sensibile ai rumori perché la non estrazione dell’oggetto voce lo immerge continuamente nel flusso della lingua. La cosiddetta chiusura a carapace è anche espressione di una difesa nei confronti del “rumore fondamentale della lingua” cui il soggetto autistico è incessantemente sottoposto a causa della troppa vicinanza con l’oggetto voce non estratto.

3. La voce si incorpora attraverso la prima identificazione. In mancanza di questo l’autistico non può rappresentarsi come significante per un altro significante e non può prendere posto nella catena significante come soggetto dell’enunciazione, in breve non può parlare per comunicare né per esprimersi.

Tuttavia il soggetto autistico è nel linguaggio e, come sappiamo soprattutto attraverso le testimonianze scritte degli autistici ad alto funzionamento come Donna Williams, Temple Grandin o Birger Sellin, il soggetto autistico soffre di solitudine e vorrebbe comunicare ma non può farlo, o meglio, lo può fare solo a certe condizioni, attraverso delle forme di autoinganno e di mascheramento che Donna Williams enumera:

1) che quello che dice non abbia alcuna importanza emozionale, dunque il soggetto può parlare ma per non dire niente 2) che colui che l’ascolta non possa intuire le sue vere intenzioni, velate da un linguaggio ermetico, perciò si tratta di parlare per non essere compresi. 3) che il linguaggio non sia destinato direttamente all’interlocutore ma che avvenga con l’intermediazione degli oggetti. 4) che la conversazione non abbia alcun contenuto affettivo ma si limiti a delle banalità 4) che non si tratti veramente di un discorso, perciò egli potrà anche cantare.

Si tratta perciò di parlare per non dire niente, di parlare per non essere compresi, di parlare senza indirizzarsi all’interlocutore, di parlare per dire futilità e, un punto che in questo ambito ci interessa particolarmente, cantare non è veramente parlare. L’autistico può essere muto o, come dice Lacan, molto “verboso”, è spesso portato alla musica e attratto dalle canzoni.

Come L., un ragazzo autistico non verbale di 16 anni che la scorsa estate ha partecipato ad un atelier di pittura condotto da due artisti che si alternavano e con la presenza di psicoterapeuti e di una musico-terapeuta nello spazio della Fondazione Martin Egge Onlus. L. aveva partecipato all’esposizione veneziana Il mondo al singolare. L’arte incontra l’autismo con alcune opere che aveva prodotto nel corso della terza media con il suo insegnante di sostegno. Il metodo di questa produzione era il seguente: l’insegnante metteva un foglio per terra e gli porgeva il pennello intinto di un colore con cui il ragazzo tracciava dei segni, quando la loro ripetizione rischiava di diventare confusiva, l’insegnante cambiava foglio oppure lo girava.

Per il soggetto autistico, la ripetizione dello stesso tratto, dello stesso significante Uno ha un effetto di godimento che, se da una parte sembra alleviare la sua angoscia, condanna il soggetto ad una ripetizione infinita. L’intervento dell’insegnante si aggiungeva alla ripetizione di uno stesso segno nel tentativo di produrre una variazione che potesse diventare significante.

Quando L. arriva all’atelier, non si interessa alla pittura, rifiuta le offerte che gli vengono fatte si aggira nella stanza emettendo suoni, lanciando grida e cercando posti e angoli in cui ripararsi. Porta con sé un lettore MP3 che ascolta con le cuffie che lo proteggono dal rumore della lingua. Nei soggetti autistici gli oggetti hanno una grande importanza perché sono dei complementi di cui il soggetto si serve in mancanza degli oggetti pulsionali che lo collegano all’Altro. Il lettore MP3 è l’oggetto-complemento di L., un oggetto direttamente collegato alla voce. Decidiamo pertanto di accostarci a lui a partire dal suo oggetto: la musica.

Con Anna Laura, la musico-terapeuta, allestiamo uno spazio musicale nella stanza adiacente a quella in cui si svolge l’atelier di pittura.

Inizialmente mettiamo una base di brani di Erik Satie seguiamo il ritmo della musica con un piccolo xilofono o con i legnetti. L. ci può osservare “obliquamente” dalla sua postazione vicino al divano e si accorge che qualcosa sta succedendo nella stanza accanto, ad un certo punto si toglie le cuffiette MP3, poi entra e si impadronisce dei legnetti. Successivamente alle improvvisazioni con i legnetti e lo xilofono aggiungiamo dei vocalizzi, dei suoni che assomigliano a quelli di L. ma più “ripuliti”, cercando di instaurare un dialogo a distanza con lui. Ai suoni che L. emette, rispondiamo con qualche variazione, per esempio incentrandoci sulle vocali A,E,I,O,U. Qualche volta siamo noi a incominciare e se tacciamo dopo un po’ lui comincia ad arrabbiarsi.

Passiamo poi a voci di animali: cane, gatto, maiale. L. è incuriosito e ripete i versi. Un operatore comincia a cantare “Nella vecchia fattoria”. L. è divertito.

Finalmente un giorno L. entra nella stanza della musica e si siede emettendo dei vocalizzi. Con Anna Laura e Simona, la psicologa che lo accompagna, rispondiamo ai suoi vocalizzi armonizzandoli. Poi L. e Simona si spostano in bagno dove continuano i vocalizzi davanti allo specchio. La sessione in bagno si ripeterà più volte, i vocalizzi saranno accompagnati dalla pittura sullo specchio. Una successiva evoluzione si avrà quando L. proverà a imitare quello che Anna Laura e io abbiamo appena cantato. L. non ha incorporato la voce che potrebbe costituire un bordo con il corpo e per questo ha il terrore della voce, per lui intrisa di godimento. Possiamo supporre che questo sia il motivo per cui L. non parla. Quelli che chiamiamo “bordi” sono situati in corrispondenza agli orifizi del corpo. Essi sono inseriti nel circuito della pulsione e dei suoi oggetti – oggetto orale, anale, oggetto fallico, voce e sguardo – e funzionano come degli organi di scambio che articolano il corpo del soggetto all’Altro.

Il corpo dell’autistico è una superfice priva di bordi, in cui gli orifizi sono chiusi e che, nei casi estremi, presenta quella che è stata chiamata chiusura a carapace. Con Éric Laurent preferiamo chiamarlo “neo-bordo”, termine indicante un concetto più dinamico.

Éric Laurent ha formulato l’ipotesi che nell’autismo, in mancanza di un tragitto pulsionale che passi attraverso il luogo dell’Altro, il ritorno del godimento avvenga su questo neo-bordo “luogo dove il soggetto è situato, un luogo di difesa massiccia, di pura presenza”. Per spostare questo bordo è necessario affiancarsi al soggetto per “costruire una catena singolare che amalgami significanti, oggetti, azioni e modi di fare, in modo da costruire un circuito che faccia funzione di bordo e di circuito pulsionale”.

Che cosa significa in pratica? Nel caso di L. siamo partiti dal suo oggetto, la musica. Nei limiti di una esperienza breve – 12 incontri nel corso di un mese e mezzo – L., partito da suoni inarticolati, è riuscito a includere alcuni nuovi suoni. È interessante notare che, mentre L. si appropriava di nuovi suoni, accettava di rilasciare dei pezzettini di carta che l’operatore gli porgeva, di introdurli nella “sua” bottiglia di plastica, una bottiglia che racchiudeva palline e strisce di carta colorata. Si tratta di un primo tentativo in cui la sua emissione vocale “senza forma” si allontana dal corpo ed entra in uno scambio con l’Altro, nella prospettiva di assumere una forma, di diventare un oggetto “in-forma”.

Chiara Mangiarotti