Temple Grandin - Il cervello autistico

martedì 21 aprile 2015

Temple Grandin

Il cervello autistico *

Adelphi, Milano 2014

di Chiara Mangiarotti

“Un viaggio attraverso il cervello autistico”, così Temple Grandin definisce questo libro, un’avventura in cui l’autrice guida il lettore, avvalendosi della sua esperienza di autistica e di quanto è riuscita ad apprendere dalle numerose scansioni cerebrali cui si è sottoposta. Temple Grandin ripone una grande fiducia nella “scienza dura” che, attraverso i risultati delle tecnologie sempre più avanzate di neuroimaging e della ricerca genetica, pensa la localizzazione dell’autismo nel cervello e non più nella mente. Una prospettiva che l’autrice oppone al metodo diagnostico basato sui profili comportamentali del DSM, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, rispetto al quale non esita a mettere in guardia i genitori affinché non si facciano imprigionare dalle etichette. Al contrario, una diagnosi basata sulla biologia potrebbe attuare un intervento precoce, quando il cervello può essere ancora riorganizzato nelle sue connessioni; potrebbe mirare più localmente alle aree cerebrali che si possono riabilitare; e, soprattutto, potrebbe fare una prognosi caso per caso.

A questo c’è da aggiungere il beneficio psicologico che Temple Grandin valuta a partire da se stessa: “Personalmente mi piace sapere che il mio alto livello di ansia potrebbe essere legato al fatto che ho un’amigdala ingrossata […] Mi aiuta a tenere l’ansia nella giusta prospettiva.” (p. 54).

L’alleggerimento dell’ansia prodotto dalla ricerca di una causalità biologica, non è forse dovuto al fatto che Temple, proprio come scienziata, ha trovato un sostegno alla sua esistenza, ha individuato il suo “punto di forza”, come lei lo chiama? Il neuroimaging tuttavia non può distinguere tra causa ed effetto. Come spieghiamo, ad esempio, che la corteccia cerebrale di un soggetto autistico reagisca di meno alla vista di facce che alla vista di oggetti? Gli autistici socializzano di meno perché le connessioni corticali registrano debolmente le facce, oppure l’attività corticale in relazione alle facce è atrofizzata per la scarsa socializzazione?

Se la biologia cerca di rispondere alle domande: “In che cosa il cervello autistico appare diverso da un cervello normale? Che cosa fa di diverso da quello che fa un cervello?”, per rispondere “a una terza domanda: Come è diventato così?” (p. 63) l’autrice invita a rivolgerci alla genetica, definita da lei stessa “un enorme ginepraio”, in cui molte piccole variazioni del codice genetico controllano lo sviluppo del cervello. Come le CNV (copy number variations). Per la maggior parte sono ereditate, oppure sono mutazioni de novo che sorgono spontaneamente nell’ovulo o nello spermatozoo prima della fecondazione o nell’ovulo appena fecondato. Molte di esse sono benigne e fanno parte di ciò che definisce l’unicità della persona. Nella ricerca effettuata dall’Autism Genome Project (AGP, 2010), secondo la valutazione di Stanley Nelson, professore di genetica umana e di psichiatria all’Università della California di Los Angeles, sono stati trovati molti più geni alterati nei bambini autistici che nel gruppo di controllo, ma il problema è che ogni bambino presentava un’anomalia diversa in un gene diverso!

L’impossibilità di trovare una causa genetica comune a tutti gli autistici e la constatazione che le determinazioni genetiche sono sempre differenti, ci riportano al carattere unico di ciascun individuo. Come notano François Ansermet e Ariane Giacobino in “Autismo. A ciascuno il suo genoma”[1], troviamo qui un incontro inatteso, e che tutto faceva ritenere improbabile, tra genetica e psicoanalisi. Non parliamo della psicoanalisi aborrita da Temple Grandin che collocherebbe la causalità dell’autismo nei genitori, madre frigorifero e simili – ma di una psicoanalisi del caso per caso che mira all’irriducibilità del soggetto nella sua unicità. Scrive Temple Grandin: “Sono le differenze che fanno di noi degli individui: gli allontanamenti dalla norma, le varianti del cervello […] Il numero delle mutazioni de novo nel DNA? La particolare posizione di ognuna di queste CNV sul cromosoma? Continuum, ancora continuum. Spesso ho pensato che arriveremo a chiederci se una mutazione genetica collegata all’autismo non sia altro che una mutazione come le altre. Ogni cosa nel cervello, ogni cosa nella genetica, si colloca in un unico grande continuum” (p. 124). Moltissimi autistici soffrono di problemi sensoriali, una confusione e alterazione della percezione e dell’informazione che colpisce sia loro che le persone a loro vicine. I ricercatori si sono occupati moltissimo della comunicazione sociale e del riconoscimento dei volti umani degli autistici ma finora hanno trascurato quest’aspetto. L’autrice pone l’accento su questi disturbi altamente invalidanti, nella prospettiva del “caso per caso”. I problemi sensoriali sono stati catalogati come “iperattività sensoriale”, in persone sensibili agli input: situazioni rumorose e di confusione, gusti, odori, sensazioni tattili, e “ipoattività sensoriale” in persone che hanno reazioni deboli a stimoli comuni, ad esempio non rispondono quando sono chiamati ecc. Ma, si chiede Temple Grandin, queste descrizioni corrispondono veramente a quello che sta accadendo al soggetto? E conclude: “Se i ricercatori vogliono sapere che cosa significa essere una delle moltissime persone che vivono in una realtà sensoriale alternativa, devono chiederlo ai diretti interessati” (p. 95).

Come Tito Rajorshi Mukhopadhyay che nei suoi libri parla della realtà da lui vissuta attraverso un “Sé agente” e un “Sé pensante”. Il primo è “bizzarro e pieno di azioni”: vede se stesso come pezzi staccati e gira su se stesso per poter “assemblare le sue parti in un tutto”; mentre il sé pensante è “pieno di conoscenze e di sentimenti”[2] (p. 98). La “sindrome del mondo intenso”, come è stato chiamato il sovraccarico di informazioni, fa sì che il soggetto autistico si chiuda in se stesso o diventi aggressivo. Troppe informazioni potrebbero far sembrare il Sé agente iporeattivo mentre il Sé pensante si sentirebbe sopraffatto. Questo accade anche nei soggetti autistici non verbali che sono molto più coinvolti nel mondo di quello che non sembri. Dal punto di vista del Sé pensante, categorie come iporeattivo e iperreattivo perdono di senso, sono due facce della stessa medaglia. Questa considerazione è ricca di implicazioni. Una tra tutte: se il “mondo intenso” provoca risposte emozionali violente come la paura, allora comportamenti apparentemente antisociali non sono altro che la risposta ad un “ambiente intensamente e dolorosamente percepito come ostile” (p. 106). Scrive Temple Grandin: “La diagnosi di autismo non è forse basata sul comportamento? Tutto il nostro approccio all’autismo non risulta forse da quella che sembra l’esperienza dall’esterno (il Sé agente), piuttosto che da quella che è l’esperienza vissuta dall’interno (il Sé pensante)?” (p. 115). Per questo l’autrice crede nella necessità di “ripensare il cervello autistico” (è il titolo della seconda parte del libro) andando oltre le etichette.

A questo proposito, Temple Grandin critica duramente il DSM-5: che vede come “una serie di diagnosi fatte da un comitato di medici che, seduti intorno a un tavolo, discutono del codice delle assicurazioni. Grazie al pensiero prigioniero delle etichette, abbiamo adesso una tale abbondanza di diagnosi che semplicemente non ci sono abbastanza sistemi cerebrali per tutti questi nomi” (p. 133). Il DSM-5 modifica la portata della diagnosi: oggi un Asperger potrebbe soddisfare tutti i criteri per essere diagnosticato autistico anche se non ha un ritardo del linguaggio. Oppure potrebbe essere inserito in Disturbo sociale della comunicazione oppure Disturbi da comportamento dirompente, Disturbi del controllo degli impulsi o Disturbi della condotta. Commenta l’autrice a proposito di quest’ultima: “Il DSM avrebbe anche potuto chiamare quest’ultima categoria ‘Sbattili in galera’” (p.131)! E auspica che “Invece di parlare di serie di sintomi, nel tentativo di etichettarli, possiamo cominciare a parlare di un particolare sintomo e cercare di individuarne l’origine […] Pensare a singoli sintomi, uno per uno alla fine ci permetterà di pensare alla diagnosi e al trattamento paziente per paziente” (p. 133 e 136).

Nella prospettiva della singolarità, Temple Grandin sostiene un approccio all’autismo che miri a individuare i punti di forza in ogni soggetto anziché concentrarsi sul deficit, come fin ora hanno fatto la maggior parte delle ricerche. Se solo il 10% degli autistici sono dei savant, tutti hanno delle attitudini e delle inclinazioni che possono essere sviluppate positivamente. Secondo Michelle Dawson, una ricercatrice autistica, “Le persone autistiche hanno difficoltà a mettere insieme il quadro complessivo […] non sono in grado di vedere la foresta ma vedono solo gli alberi” (p. 141), propensione per la quale è stato coniato il termine “predilezione locale”. Per esempio i bambini autistici non sono in grado di comporre le parti di un volto per interpretarne le emozioni ma riescono invece a riconoscere il pattern puro, ad esempio nel test figura nascosta o nel gioco trovare l‘intruso. Così Dawson ha un approccio alla ricerca di tipo bottom up, concentrato sui dati, mentre normalmente i ricercatori hanno un approccio di tipo top-down, che consiste nell’elaborare un’idea generale, un modello, considerando un minor numero di fonti, tornando poi ai fatti per convalidare o falsificare il modello. La modalità di tipo bottom-up, se ha bisogno di molti dati, ha però il vantaggio di generare modelli esatti e, inoltre è possibile modificare i dati in corso d’opera perché non c’è ancora la soluzione complessiva. Temple Grandin paragona il funzionamento della sua mente a quello dei motori di ricerca ed è convinta che i primi a progettarli siano state persone con un cervello simile al suo. Un motore di ricerca ha bisogno di informazioni per dare dei risultati, il cervello umano ha bisogno di ricordi. Per questo gli autistici, se difettano quanto a memoria a breve termine, hanno una memoria a lungo termine eccezionale. Coloro che utilizzano una modalità di ricerca a partire dai dettagli hanno più possibilità di avere risultati creativi perché non sanno dove stanno andando, conformemente a una definizione di creatività che risiede in “un improvviso e inaspettato riconoscimento di concetti o fatti non visti precedentemente” (p. 150 ). “Noi ci aspettiamo delle sorprese”, afferma l’autrice (p. 153).

In Pensare in immagini, Temple Grandin aveva compreso che il suo modo di vedere il mondo non era lo stesso degli altri ed era convinta che tutti gli autistici pensassero solo in immagini. Il modo in cui ogni autistico utilizza i propri punti di forza, l’ha condotta ora a ipotizzare una terza categoria oltre ai pensatori verbali e ai pensatori visivi: i pensatori per pattern. I quadri di un’artista come Jessica Park o la capacità di memorizzare una quantità enorme di numeri di David Tammet corrispondono ad un pensiero per pattern. Ma in che modo l’ipotesi relativa a questi tre tipi di menti aiuta il cervello autistico? Fin da piccola l’autrice ha imparato a lavorare sui suoi punti di forza: non riusciva a sciare ma disegnare era quello che sapeva fare meglio, così poteva impiegare questa sua abilità per decorare la casetta dello skilift. Grazie alla sua plasticità, il cervello può creare connessioni tutta la vita. Anche il cervello di Temple Grandin è cambiato nel corso degli anni: dal disegno è passata a tenere conferenze sull’autismo, riconvertendo il suo cervello a questa nuova abilità. È consulente per genitori di bambini autistici che indirizza a individuare gli interessi e i talenti dei loro figli.

Come identificare i punti di forza e aiutare i bambini autistici a volgere a loro favore la plasticità del cervello? Secondo l’autrice, la scuola non dovrebbe trattare i ragazzi come se fossero tutti uguali ma seguire le loro inclinazioni. Se un alunno eccelle nelle materie artistiche e disegna solo auto da corsa, incoraggiarlo, invece di costringerlo a fare altro (sic), per poi ampliarne l’ambito: fargli disegnare l’autodromo, poi i palazzi che ci sono intorno, ecc., trasformando un’abilità ripetitiva in una forza che si può evolvere creativamente. La scuola – e non solo negli USA – è programmata per i pensatori verbali mentre invece sarebbe importante che prendesse in considerazione i campi in cui eccellono i pensatori visivi e i pensatori per pattern. Non possiamo che concordare. È altrettanto importante che i genitori permettano ai bambini di fare esperienza del mondo, prima del raggiungimento dell’età lavorativa. Temple Grandin stessa, come avrebbe potuto appassionarsi alla zoologia se non avesse visitato il ranch della zia? Ma non occorre andare lontano, anche un posto vicino a casa può bastare. L’importante è che genitori e insegnanti siano attenti ad individuare e sostenere passioni intorno alle quali costruire una futura professione e a responsabilizzarli nelle loro attività. A questo proposito l’autrice rivolge agli autistici alcuni consigli: governare le proprie emozioni, trasformando la rabbia in frustrazione e imparando a piangere, vendere il proprio lavoro e non se stessi, evitando per esempio i colloqui faccia a faccia, cercare una guida che sappia sostenere indirizzare le proprie inclinazioni.

La certezza che l’autismo risieda nel cervello e nei geni è per lei, paradossalmente, una garanzia di libertà: “quando qualcosa è ‘tutto nella vostra mente’ la gente pensa che sia volontario, che sia qualcosa che potreste controllare se solo ci provaste con maggior impegno o se foste stati addestrati in maniera diversa” (p. 229). Per questo ha fiducia che l’autismo possa essere considerato in futuro “cervello per cervello, stringa di DNA per stringa di DNA, tratto per tratto, punto di forza per punto di forza e, forse la cosa più importante, individuo per individuo” (p. 230). Temple Grandin, se ci dichiara a sorpresa la sua vicinanza a Freud che, fiducioso nei progressi della scienza, si attendeva dalla biologia “le più sorprendenti delucidazioni […] tali da far crollare tutto l’artificioso edificio delle nostre ipotesi”[3], in questo si rivela davvero freudiana e anche un po’ lacaniana: l’attenzione alla particolarità soggettiva, l’insegnamento maggiore della psicoanalisi applicata all’approccio dell’autismo.

* T.Grandin, Il Cervello Autistico, Adelphi, Milano 2014

[1] F. Ansermet e A. Giacobino, Autismo. A ciascuno il suo genoma, Quodlibet, Macerata 2013.

[2] Tito Rajarshi Mukhopadhyay, How Can I Talk If My Lips Don’t Move. Inside My Autistic Mind, Arcade Publishing, New York, 2008. In questo libro l’autore descrive come si è liberato dalla prigione dell’autismo.

[3] S. Freud, Al di là del principio di piacere, in Opere, vol. IX, pp. 189-249, Bollati Boringhieri, Torino 1989.